
Oggi dopo il lavoro, non sono tornata subito a casa. Avevo la neccessità di farmi una passeggiata. Volevo apprezzare, volevo assaporare ancora, il sole caldo della bellissima giornata appena trascorsa. Almeno quello che ne restava. Dopo alcune compere, pennarelli per colorare, e un libro da colorare, mi sono trovata a sedermi nel parco giochi vicino casa mia. Quanti bambini, dissi tra me e me. Allora esistono ancora, e ancora giocano! Bene, mi dissi, fanno bene a giocare a stare fuori a divertirsi. Mi ricordano così tanto la mia di infanzia! 😉
Mentre mi stavo cimentando nel colorare il mio album “Segui i tuoi Sogni”, una bambina cominciò a fare un discorsetto alla sua mamma:
“Sai mamma in questo periodo mi sento un po’ da sola. Come se tutti mi igmorassero. Come se tutti non mi vedessero. Ma io sono qua, io ci sono. Io non capisco proprio perché?!”
Notavo che la madre non accennava a rispondere. Sua figlia aveva forse toccato un tasto dolente? Una bambina di 8 anni, poteva già fare questo genere di discorsi? 8 anni faccio per dire. Non più di 10 sicuro!
“Sai mamma a me non mi piacciono quelli che fanno finta di volerti bene! Che se li aiuti giocano con te e se non lo fai, se ne vanno! Non mi piacciono quelli che ti comandano! Io sono un po’ stufa. Voglio giocare se mi va e voglio fare niente se mi va! Ma perché non si può essere così? Eh mamma?”
La madre questa volta senza dire niente, si alzò, si avvicinò alla figlia, le accarezzò la guancia, le sistemò i capelli castani lunghi dietro le orecchie, e l’ abbracciò. Forse quel gesto era l’ unico appropriato in quel momento. Dentro di me pensai, che alcune domande scomode dei bambini, sono quelle a cui noi adulti non vogliamo dare risposta. I bambini vogliono sapere, mentre i grandi, i così detti adulti, preferiscono tacere. E’ più semplice nascondere sotto il tappeto. Cosa ne sanno almeno ancora, i bambini, dell’ indifferenza, del silenzio e del rifiuto degli adulti?
Così quell’ abbraccio di mamma sembrò placare il disagio passeggero della piccola. Ed io continuavo a colorare, coloravo, i miei sogni, che in quel momento sembravano sussurrare:
“Non soffermarti nel passato, non sognare il futuro, concentra la mente sull’istante presente.”
Buddha

Foto scattata da me.
..la tua citazione dell’album da colorare mi ha stuzzicata la curiosità, e così sono andata a cercarlo su google (e l’ho trovato e me lo sono segnato).
La bambina dai capelli castani.. mi ricorda tanto la ila piccola e la ila di oggi.. stesse domande senza risposta.. forse è il prezzo che paga chi è più vero.. o forse chi lo sa.. ma per fortuna i sogni ci aiutano, e soprattutto ci aiuta l’esser salde a noi stesse, roccia incorrotta nelle tempeste della vita.. Che ne dici..? 🙂
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..e comunque voglio provare a dedicarmi anch’io agli album da colorare.. 😉
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Ciao Ila, quella bambina potremmo essere tutti… Infondo in noi giace un bimbo interiore. Che ogni tanto necessita di un abbraccio! 😉 Sono contenta che l’ idea dell’ album ti sia piaciuta!!!
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Moltissimo, soprattutto perchè mi sembra diverso da tanti altri che sono in commercio in questo momento.. 😉
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..e a proposito di abbracci.. ti allego questo brano
https://books.google.it/books?id=u6zvuy-yCvkC&pg=PT111&lpg=PT111&dq=Nel+frattempo,+mentre+ero+sempre+pi%C3%B9+inserito+in+quella+realt%C3%A0,+la+mia+vita+passava+in+maniera+totalmente+diversa+da+come+avevo+sempre+vissuto+prima.&source=bl&ots=K2xMZovwCs&sig=wYpLkvwA6TjnQXDkyzpwpLn2OmQ&hl=it&sa=X&ved=0CCYQ6AEwAWoVChMIpNCDt_uNyAIVxMAUCh1AaQMQ#v=onepage&q&f=false
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Capitolo 14.
La mulher del abraço.
[…] Nel frattempo, mentre ero sempre più inserito in quella
realtà, la mia vita passava in maniera totalmente diversa
da come avevo sempre vissuto prima.
Ero in qualche modo fuggito dalla vecchia vita perché
stavo troppo male. Ma non ho mai pensato che andandomene
se ne sarebbe andato anche il mio dolore. Anzi,
sapevo che era la mia ombra e che mi avrebbe seguito
ovunque finché non lo avessi metabolizzato, elaborato e
trasformato, ma soprattutto affrontato.
Un giorno, nonostante tutto fosse tranquillo come
sempre, ho iniziato a sentire dentro di me un po’ di agitazione.
Non ero sereno. Avevo fatto anche uno strano
sogno. Ero in cucina a casa di mio padre e mia sorella, e
a un certo punto, masticando, mi sono accorto che perdevo
i denti. Cadevano in maniera naturale, senza perdere
sangue. Mi cascavano dalla bocca e, mentre mi abbassavo
per raccoglierli, una infinita quantità di acqua
entrava in casa, portava via i miei denti e poi spazzava
via tutto, me compreso. Mi sono svegliato che muovevo
le gambe come se nuotassi.
Al di là del sogno, forse mi rendevo conto che l’entusiasmo
iniziale era finito e che i problemi stavano tornando
a galla. I cattivi pensieri avevano cominciato a
bussare nuovamente. Avevo fatto finta di niente per
troppo tempo, spinto da quell’ondata di novità. All’inizio
mi era piaciuto, come fossi ubriaco, ma ora l’effetto
della sbronza stava finendo e io prendevo coscienza
della mia situazione. Non avevo fatto chiarezza nella
mia vita. Non avevo affrontato niente e non ero cambiato,
mi ero solo preso una pausa da me, ma la scampagnata
stava per concludersi.
Non capivo esattamente dov’ero e cosa stavo facendo.
Non era come prima, che quando incontravo qualcuno
sapevo praticamente tutto perché vedevo le stesse
persone da anni. Prima, la gente sapeva chi ero, che
macchina avevo, di cosa mi occupavo, chi fosse la mia
famiglia e quali erano i giorni in cui andavo in palestra.
Qui non ero più tutte quelle cose. Qui non ero. Punto.
Prima, quando mi sentivo solo, mi bastava andare al
bar e qualcuno che conoscevo lo trovavo sempre.
Io, che avevo sempre scelto “il conosciuto”, la sicurezza,
il controllo su tutto, vivevo ora senza certezze. In
totale caduta libera. E non era più così affascinante come
i primi giorni, non mi sentivo più Indiana Jones.
Tornare a casa la sera, tra le mie cose, prima mi dava
tranquillità. Il mio letto, il mio stereo, il mio computer, la
mia tazza. Tutti oggetti con cui avevo rapporti da anni.
Tutte cose a cui, senza saperlo, la mia persona si aggrappava,
che mi dicevano di riflesso chi fossi. Ho compreso
in quei giorni quanto l’idea che avevo di me fosse ingombrante,
quanto fosse invadente, e si mettesse sempre
tra me e il mondo, impedendomi di vederlo. Non
avevo mai capito prima che mi dovevo spostare. Spostare
da me.
Avevo praticamente eliminato tutto ciò che mi definiva.
Sradicato la mia vita. Stavo vivendo la disgregazione
della mia personale esistenza.
Come quando vedi dei posti nuovi dopo esserti perso
in macchina. Li vedi solamente perché ti sei perso. A me
era capitato così. Vedevo parti di me che non avrei mai
visto grazie al fatto che mi ero perso. Ero uscito dal solito
tragitto che facevo abitualmente nella vita.
Eccomi arrivato alla fase in cui Ulisse dice di chiamarsi
Nessuno. Girovagare lontano dalla strada che conoscevo
in mezzo a paesaggi nuovi e sconosciuti mi faceva
paura. Avevo nuovamente paura. Mi ero incartato.
Incastrato da solo. Da piccolo mi ero affacciato attraverso
la ringhiera del balcone e mi ero bloccato con la testa.
C’era voluto mio nonno per liberarmi. All’andata tutto
bene, ma nel ritorno le orecchie erano un ostacolo. Eccomi
lì nuovamente in quella ringhiera invisibile. Mi ero
affacciato per vedere cosa c’era dall’altra parte e non
riuscivo più a tornare indietro.
Avvertivo già da qualche giorno un leggero disagio,
ma quella mattina era esploso. “Cos’erano tutte quelle
cose assurde che mi ero messo in testa?” Ho passato tutta
la giornata pensando di tornare a casa, di tornare alla
vita di prima. Ritirare la testa dalla ringhiera. Anche Sadi
si era accorto che c’era qualcosa che non andava, ma
non ho detto nulla nemmeno a lui. Ho cercato di capire
quando ci fosse il primo aereo per l’Italia. La pseudo
agenzia viaggi era chiusa, avrebbe aperto il giorno dopo
e questo mi ha creato ancora più ansia perché mi faceva
sentire in gabbia. Ormai volevo tornare a casa. Ho
evitato di incontrare Sophie perché mi vergognavo.
Quella sera non riuscivo a dormire. Mi sono rotolato
nel letto come i polli in rosticceria. A un certo punto la situazione
si è aggravata. Non ero più nemmeno in grado
di respirare bene. Facevo solo piccolissimi e rapidi respiri.
Stavo male. Avevo paura. Ho pensato che stavo morendo.
Mi sono lavato la faccia. Ho cercato di bere. Non
mi passava. Non sapevo cosa fare. Alla fine sono andato
a bussare alla porta di Sophie: «Scusami se ti disturbo,
ma sto male… sto male, non so cosa fare, non riesco a respirare,
non c’è un dottore, qualcuno… non lo so, aiutami
ti prego… non mi è mai capitato, non so cosa sia…».
Lei mi ha detto di stare calmo, di entrare in casa e di
sedermi. Ma io non riuscivo a stare calmo e tanto meno
a sedermi. Non sono riuscito nemmeno a entrare in casa.
«Aspetta un attimo: mi vesto e ti porto da una persona
che forse può aiutarti.»
Siamo usciti e siamo andati in paese a piedi. La strada
era vuota, non c’era nessuno. Mentre camminavo mi
scusavo continuamente con lei, ma Sophie mi diceva di
smettere di chiedere scusa.
Arrivati in paese, si è fermata davanti a una porta
verde pastello. Almeno, con quella poca luce sembrava
di quel colore. Ha bussato e dopo un paio di minuti si è
presentata alla porta una donna grassa di colore. Ha salutato
con calore Sophie, chiedendole cosa fosse successo.
Poi ci ha fatti entrare.
Ero più spaventato e agitato di prima. Mi aspettavo
un pronto soccorso o qualcosa del genere. Quando sto
male preferisco gli ospedali pieni di medicine. “Magari
adesso mi fa mangiare una cresta di gallo e bere pipì di
capra” ho pensato.
Sophie le ha spiegato cosa avevo. Tina, così si chiamava
la donnona, ha messo dell’acqua a bollire e ha
iniziato a chiedere un po’ di informazioni su di me.
Era molto tranquilla e calma e questo mi infastidiva,
perché non mi considerava granché. Forse né lei né
Sophie avevano capito che stavo veramente male. Non
riuscivo a respirare, ero agitato, probabilmente stavo
per morire e quella signora non mi faceva niente, continuava
a chiacchierare. Io non capivo molto, ho solamente
sentito a un certo punto del discorso il nome
mio e poi quello di Federico. Probabilmente le aveva
detto che ero un suo amico. Ho chiesto cosa si stavano
dicendo e Sophie mi ha spiegato che Tina aveva domandato
come mi chiamavo e da dove venivo: «Le ho
detto che sei un amico di Federico e che non riesci a respirare
bene».
«E lei che ha detto?»
«Ha voluto sapere da quanto tempo sei qui, che lavoro
fai, insomma un po’ di cose.»
«Cosa c’entra, mica sono qui a chiederle la mano di
sua figlia… io sto male.»
A quel punto Tina si è avvicinata e mi ha fissato negli
occhi. Poi mi ha messo una mano sul petto, esattamente
sul plesso solare, su quel buchino del diaframma che c’è
appena sotto le costole. Continuava a guardarmi dritto
negli occhi e per un istante mi sono sentito completamente
nudo. Come se guardasse oltre, al di là di me. Poi
mi ha detto una cosa nella sua lingua.
«Cosa ha detto?» ho chiesto a Sophie.
«Che in fondo ai tuoi occhi c’è un bambino che piange.»
Mi ha massaggiato sempre lì per qualche secondo, e
ha chiuso gli occhi, poi ha iniziato a schiacciare e spingere
forte con le dita. Mi faceva malissimo. Mi ha chiesto di
respirare profondamente e quando buttavo fuori l’aria
lei, assecondando il respiro, affondava e spingeva fortissimo.
Dopo un po’ di volte, credo a causa dei respiri
profondi, ho avuto un giramento di testa e ho provato la
sensazione che entrasse con la sua mano dentro di me,
che mi stesse quasi trapassando. Teneva l’altra mano
dietro la mia schiena alla stessa altezza per reggere la
spinta e a un certo punto le sue mani si sono come toccate
con me nel mezzo. È quello che ho sentito. Ha tolto la
mano e mi ha abbracciato. Non sono mai riuscito a essere
molto fisico con gli sconosciuti, ma c’era qualcosa di
familiare in quell’abbraccio. Sembrava uno di quelli che
mi dava mia nonna. L’unica alla quale lo permettevo anche
da piccolo, a parte mia madre. Pian piano ho alzato
le braccia penzolanti e l’ho abbracciata anch’io, in maniera
naturale, come se si fossero mosse da sole. Nel punto
in cui mi aveva massaggiato d’un tratto ho sentito un calore
che da lì si irradiava in tutto il corpo. Le gambe hanno
iniziato a tremare. Praticamente mi reggeva lei. Ho
cominciato a sudare. Mi sudavano il collo, la schiena, la
fronte. Sono scoppiato a piangere. Stavo piangendo, non
ci potevo credere. Finalmente c’ero riuscito, mi ero liberato.
È stato un pianto incontrollabile. Tossivo, singhiozzavo,
piangevo e le lacrime mi scendevano fortissime come
la pioggia in un temporale d’estate. Avrò pianto per
almeno dieci minuti. Un’eternità. Sono rimasto in piedi
in quella stanza, come un bambino, aggrappato a quella
donna come se lei fosse la vita stessa. Mi viene da piangere
ancora adesso ogni volta che ci penso. Pian piano
tutto è tornato alla tranquillità. Mi sono seduto in silenzio.
Non riuscivo a parlare. Ero sconvolto. Sophie e Tina
sorridevano. Gli occhi di Sophie erano lucidi, credo
avesse pianto anche lei. Io le guardavo e sorridevo. Ora
stavo bene. Vivevo un benessere mai provato.
Tina ha preso il pentolino con l’acqua che bolliva e ci
ha messo dentro una bustina.
«Adesso che mi dà?» ho chiesto a Sophie.
«Del tè verde, se lo vuoi.»
Mentre il tè si raffreddava nelle tazze, Tina mi ha fatto
cenno di seguirla. Siamo andati in camera da letto e mi
ha detto di specchiarmi. Ero diverso, completamente
stravolto, ma i miei occhi erano puliti e brillavano come
due piccole gocce di luce.
Dopo aver bevuto il tè ho chiesto quanto dovevo pagare.
Mi ha detto di portarle l’indomani un chilo di
caffè, che lo aveva finito.
Tornando a casa cercavo di saperne di più su quello
che mi era capitato. Volevo sapere se anche Sophie aveva
vissuto quell’esperienza. Mi ha detto che ogni tanto
andava da lei e si abbracciavano, anche se non sempre
piangeva. Era molto amica di Federico ed era stato lui a
fargliela conoscere. In paese la chiamavano la mulher del abraço.
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Wow grazie di ❤ Mi sono commoss!!!
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E’ l’unico libro di Fabio Volo che abbia letto – Un posto nel mondo – e questo credo sia il capitolo più bello in assoluto.
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Perdonami se rispondo a rate: è vero, non sappiamo rispondere alle domande dei bambini quando sono troppo scomode per noi. Ma il cercare di rispondere aiuterebbe anche noi adulti. Ho dei nipoti e non mi son mai tirata indietro alle loro domande. Nemmeno quando mi son trovata a non aver altra risposta di un “Non lo so.” sincero. Ma semopre sincero. Poi magari sbaglio, forse ha ragione chi sostiene che ai bambini bisogna dare risposte che siano adatte alla loro comprensione, e allora forse l’abbraccio era l’unica cosa che poteva fare quella mamma, ma io non me la sento di lasciare senza risposta. Mi guardo dentro e tiro fuori quello che ci trovo, senza mai mentire. I bambini capiscono se sei sincero, e lo apprezzano.
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Ciao Ila, ti perdono. E ti ringrazio 😉 Interagire mi piace. E sai? Mi hai fatto pensare ad un buon libro da leggere e rileggere, Il Piccolo principe. Lui arrossiva alle domande…. E poi in Francia è già uscito….. a Natale esce al cinema da noi, il film!!!! L’ essenziale è invisibile agli occhi…. “Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”
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L’ultima volta che l’ho letto mi sono appuntata tutti i passi più importanti
“Il piccolo principe se ne ando’ a rivedere le rose.
“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente”[…]”Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perche’ su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa”.
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